Traversi incoscienti di Marco Banfi (Monetti)

di Salvatore Amato

I due giorni più importanti della tua vita sono il giorno in cui sei nato e il giorno in cui scopri perché“. E già dall’esergo di Twain si capisce la prospettiva e gli intenti dell’opera poetica di Banfi.

Chi è evaso ha infranto la prima regola: ha pensato. Al cameriere nessuna mancia, non è taccagneria, ma il conto è più salato dell’acqua oceanica. I bimbi a pranzo hanno sorrisi di madri, autocarri contromano, sempre meno civili e più soldati al fronte, la bellezza sul nastro trasportatore: si ammira in soggettiva. L’autore avrebbe voluto passeggiare su uno spartito, invece di avvalersi di lettere su un pezzo di carta per avere voce.

Ma la sua voce è chiara tra le lettere, gli analoggismi e le figure retoriche. La carta sembra appalloccata, riaperta, creata da nuovo, con nuovi margini dove confrontarsi. Così, Banfi ci parla di sé, della sua visuale sul mondo, delle sue prese di coscienza, degli “Anni trascorsi a vanvera,/galoppando in labirinto/accecato d’un occhio… l’altro finto“.

Nelle due facce dello specchio o si comanda il tempo, o si nasce vecchi, spade di Damocle su colli sfitti. Il dipinto del sole mattutino, così caro all’autore, è dipinto su una tela di cemento. Il campanile suona e turba il sonno. Il poeta svaria nelle tematiche, in curva fa drifting tra i versi, riconosce alla sua poesia sfogo, terapia, cura a un malessere intrinseco a chi si ferma a osservare e riflettere. Usa un linguaggio, semplice e d’impatto, ci dice: “Se non scrivessi non avrei munizioni/e farei d’ignoranza mio motto/avrei arma scarica/utile come braccio rotto“.

Ma quante ne deve passare un uomo? Cataclismi, indigestioni, bottoni rotti. E poi: Il giorno più bello/sarà una mattina normale/del buon vino e del pane.

Traversi incoscienti è una raccolta poetica con una propria è ben delineata coscienza. Un reportage lucido che, nella sua spericolata corsa, anela a guardare tutto con occhi diversi, per poi riguardarlo ancora da un’altra angolazione, finché la somma delle prospettive non possa darci delle linee guida per comprendere un quadro un po’ più definito, ma non definitivo; quello non lo sarà mai, perché il mondo, la coscienza e l’umore sono e saranno sempre mutabili.

Banfi non sale sulla cattedra della vita a impartire insegnamenti, non è un guru, lui ci chiama amici cari, perché a lui è caro il genuino gesto di leggerlo. Spoglia il proprio pensiero, ci mostra un suo Io che vive nell’inquieto, che sa ironizzare sulle proprie cicatrici, che vuole analizzare le sconfitte prima delle conquiste di: sembianze umane,/relitti/e nulla più./Veterani di battaglie/mai combattute,/alla deriva.

Giungo con essi/recandoli oltre/frontiere:/sorrisi rimpianti,/sogni e trascorsi/d’errati passi,/più avanzo di dorso/alluce torna maestro,/muovo distante/salute amici cari.

Così si congeda il poeta e così mi congedo anche io.

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