L’amore a volte esagera di Andrea Gruccia (Milena)

Recensione di Gian Luca Guillaume
Dopo l’uscita del fortunato romanzo “Il tatto delle cose sporche”, lo scrittore-pittore Andrea Gruccia ritorna alla poesia pubblicando per i tipi de Milena Edizioni la sua seconda silloge poetica, a due anni di distanza dall’esordio di “Capelvenere”. 


Questa nuova raccolta, come indica il titolo, è di fatto un canzoniere amoroso scritto da un artista assolutamente moderno: moderno è il magistero formale come pure l’osservazione e l’analisi del sentimento trattato. Abbandonato quasi del tutto il surrealismo presente nel primo libro di poesie, il Gruccia, in questa nuova sede, si rifugia completamente nei sentimenti, in particolare quello amoroso così caro a questo genere letterario: è un ripiegamento rosa e inzuccheratissimo, malinconico e sottomesso, che alterna attimi di gioia (pochi) a momenti di scoramento (molti). L’amore non è rappresentato alla maniera degli odierni poeti come sintesi di bontà e di bellezza, di patetica afflizione e di spiritualità, ma come sconvolgente conflitto tra la passione e la ragione, tra l’emozione e la speculazione: l’innamorato è sbigottito, inerme di fronte all’irraggiungibilità della donna, incapace di reagire, di “accorciare le distanze”, di soverchiare il vuoto frapposto fra lui e l’amata. Vi è, nella maggior parte delle liriche, un’ipotetica destinataria al quale il poeta confessa le proprie fantasie, le proprie intenzioni ma soprattutto i più oscuri segreti che si celano in ogni core innamorato. Non c’è alcuna sicurezza in questo campo minato, nessuna, il poeta ne è consapevole pur non riuscendo a sottrarsi da quel loco così sconosciuto e nebuloso.
Sul piano formale, come accennato all’inizio, siamo in presenza di un verso oramai totalmente libero, povero di rime, di cadenze ritmiche e di figure retoriche (sparse qua e là si trovano molte similitudini, alcune anafore e qualche ossimoro). Il lessico è umile, elementare, atto all’immediata comprensione, assolutamente privo di artifizi e/o virtuosismi verbali. Si ha la sensazione della spontaneità, della naturalezza, dell’automatismo, cioè di una scrittura di getto senza ripensamenti né rifiniture. La sua “officina” è composta di pochissimi ferri del mestiere, anzi, si direbbe che l’artiere lavori solo con le proprie mani, al massimo le copre con dei guanti che altro non sono che l’esperienza di vita accumulata negli anni. Il linguaggio colloquiale e dimesso, una certa monotonia di ritmo e la tematica così usitata rendono l’impasto commestibile a tutti, soprattutto ai lettori inesperti, che troveranno sugo in queste poesie semplici, intime ma non private.
È da tempo che si parla di poesia social: una poesia di agevole decifrazione oltre che di estrema riproducibilità, letta e scritta da una moltitudine schiera di persone volenterose di esprimersi attraverso la nuova frontiera della Rete. Non saprei dire con certezza se in questo tempio di centosettanta pagine siamo in presenza o no di poesie social, ma se così fosse, sarebbe poesia social della migliore fattura.

Recensione condivisa sul blog amico “Tra il serio e il faceto”

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