di Gian Luca Guillaume
Tito Marrone, poeta, commediografo e traduttore d’inizio secolo breve, nato cresciuto e morto nell’oscurità più totale (giusto qualche piccolo riconoscimento insignificante sparso qua e là lungo l’intero arco della sua vita), è il primo di una serie di poeti straordinari finiti nel dimenticatoio per ragioni davvero incomprensibili.
Tolto la solita tiritera riguardante la sfortuna del periodo storico o dell’essere adombrati dai giganti coevi, i cosiddetti “maggiori”, non vi è una sola ragione valida del completo disinteresse verso questo autore discretissimo, portato all’isolamento da lui medesimo per via di una poco idilliaca vicenda familiare e sentimentale, che hanno portato il Nostro a rinchiudersi ancor più in se stesso, sia lui sia la sua opera in versi e quella teatrale. E tutt’ora non viene ancora ristampato… perché? Dal libro-testimonianza dello scrittore Lucio D’Ambra, Trent’anni di vita letteraria (Edizioni Corbaccio, Milano 1928), veniamo a conoscenza delle ultime volontà del poeta trapanese riguardo una delle sue commedie (Le fidanzate), prossima alla messa in scena: “[…] La ringrazio infinitamente, ma la prego di restituirmi il manoscritto. Non desidero essere rappresentato […]”. Sicuramente schivo, lontano dai salotti letterari, forse un poco aristocratico (in senso lato), tutto proteso alla lettura dei poeti francesi, simbolisti e decadenti, e del teatro di Becque, Marrone può esser considerato, a tutti gli effetti, un precursore del crepuscolarismo insieme a Corrado Govoni, invece che un anonimo poeta.

Nato a Trapani il 9 marzo del 1882 e trasferitosi a Roma nel 1901, cominciò a pubblicare fin da giovanissimo, dalla prima raccolta poetica intitolata Cesellature (1899) impregnata di lessemi e di reminiscenze che vanno da Dante a Carducci, lambiccando il “solito” D’Annunzio, al proseguo delle Liriche (1904), anch’esse sulla scia formale del primo libro, con la novità dei contenuti e degli argomenti crepuscolari, sfumati e sfocati dall’ombra o dal grigiore di un sole pallido in un cielo senza stelle.
Dopo la pubblicazione di questi due volumi, le sue poesie apparvero solamente su riviste e periodici dell’epoca, precisamente dal 1905 al 1908; poi c’è un’assenza totale fino al biennio 1947-49, anni in cui vinse i premi Fusinato e Siracusa per la silloge Esilio della mia vita, che però porta la data del 13 gennaio 1950. La raccolta poetica Carnascialate. Poemi provinciali. Fiabe e favole, tutt’ora inedita, doveva inizialmente essere pubblicata dopo Liriche su volere dello stesso Marrone, che in una breve postfazione a Esilio della mia vita scrisse: “Il poema lirico Esilio della mia vita […] avrei dovuto pubblicarlo, se particolari circostanze non me lo avessero impedito, dopo le Carnascialate e i Poemi provinciali: queste poesie, ebbero, secondo il giudizio di recenti critici, qualche non lieve influenza sulla lirica comunemente detta crepuscolare”. Nella Voce Repubblicana, il 4 dicembre del 1949, il poeta Aldo Capasso scrisse: “Egli (Tito Marrone) fu, insieme col Govoni, uno dei due veri iniziatori del crepuscolarismo italiano: se Armonia in grigio et in silenzio di Govoni rimonta al 1903, conosciamo liriche dell’allora giovanissimo Marrone, di tono e modo crepuscolare e di notevolissima maturità, rimontanti al 1904: gli esperimenti di Corazzini, nel 1904, erano ancora veramente acerbi. Per questo lato, dunque, il Marrone merita un posto assai cospicuo tra gli iniziatori e i capofila del crepuscolarismo accanto a Govoni e ancor prima del Corazzini. Il premio Fusinato del 1947 gli fu assegnato per un riconoscimento retrospettivo di questa sua innegabile priorità […]”.
Tra i numerosi topoi crepuscolari presenti nella sua poesia quali la vecchia casa, le strade desolate, le domeniche uggiose, la gente anonima, il fanciullo spensierato, il vecchio infermo e il mendicante cencioso, tutti schiacciati sotto il peso della quotidianità, vi sono presenti, originali in tal guisa, anche le maschere e le marionette, spogliate delle loro vesti istituzionali della commedia dell’arte e fatte recitare e vivere per conto proprio. Attraverso loro, Marrone esplicita la sua concezione pessimistica della vita: quella vita corrosa da anni di disillusioni, di solitudine, di irriconoscenza e di ascosa sofferenza.
Sono poesie, le seguenti, che ben evidenziano la particolare inclinazione e sensibilità teatrale di Tito Marrone, poesie-dialogo tipiche del drammaturgo, dell’uomo di teatro e del fantasioso melanconico imbevuto di suggestioni d’antan e d’oltralpe.
In conclusione, questo è un poeta tutto da scoprire o da riscoprire. Peccato per la sua totale assenza nel mercato editoriale; non un solo titolo, della sua ampia opera, che sia stato ristampato. Nulla. Forse dovremo recitare un de profundis… Dannazione!
Poesie
LE PICCOLE COSE
Talvolta
(la notte è scesa
con la paura
e il vipistrello sventola
l’ali sue di spettro
che non fanno strepito)
dentro la nostra casa solitaria
sentiamo brevi rumori nell’aria…
Sono le piccole cose che tremano.
Talvolta
(entrando nella stanza
dove l’ombra ha dormito in una bara)
sentiamo una lima
lontanissima limare,
stridere un tarlo…
Sono le piccole cose che gemono.
Talvolta
(l’anima nostra è in pace
e l’occhio svaria
dalla finestra aperta
su la campagna che giace
quieta e solitaria
sotto la luna deserta)
sentiamo l’aria…
Sono le piccole cose che cantano.
GIORNO DI MAGRO
Nella chiusa bottega delle maschere,
oggi s’è udito
qualche bisbiglio
e uno sbadiglio.
— Oh — geme Pulcinella
mezzo vestito,
giallo come la cera,
staccandosi dall’angolo dov’era
nascosto; e, traballando un po’, si avanza
nel mezzo della stanza.
— Che ve ne pare? Lunga,
questa quaresima!
Dì, Pantalone,
tu che a ragione
sei stimato da noi tutti il più previdente,
per avventura
non avresti qualcosa da metter sotto il dente? —
Ma il vecchio Pantalone tace. — Bella figura! —
Colombina bisbiglia
sommesso ad Arlecchino,
che in un canto le fa l’occhio di triglia.
Ed egli a lei con un leggiadro inchino:
— Permettete, mia bella,
che per la vostra
cena io vi dia
quel che serbo di meglio. —
E le maschere in festa:
— Bravo! Dà qui! Su via! —
Ma il cavalier galante
— Non a tutti — protesta —
solo alla mia regina,
madama Colombina!
Colombina protende
la sua mano con uno
sbadiglio d’appetito e un sorriso d’amore…
In ginocchio precipita Arlecchino:
— Divorate il mio cuore! —.
DIALOGO DI GIOVEDÌ GRASSO
— Marchesa, permettete?
Forse è incomoda l’ora…
— Ma come? Siete
voi, caro abate?
Coraggio: avanti.
— Mi perdonate,
se mi presento senza
parrucca e senza guanti?
— Oh, confidiamo ancora
nella vostra clemenza!
Ma venite in cattivo punto. — In cattivo punto?
— Prendetevi una sedia.
— Grazie. La cerco…
— … senza trovarla. Quel maledettissimo
padron di casa è un pezzo che gioca la commedia
di lasciarmi così. — Rimango in piedi,
dal mattino alla sera, dalla sera al mattino,
adorator perpetuo della vostra bellezza!
— Voi siete la fenice degli abati galanti.
— Per carità, marchesa:
senza la mia parrucca e senza i guanti…
— Oh, non è nulla! Io stessa
son fuori di me,
caro abate, perché…
Ma, prima:
vi ricordate l’abito
pompadour, che di Francia
mi recò mio marito
centotrent’anni fa,
che indossai l’ultima
volta al ballo dogale? — Mi ricordo
che quella sera volli baciarvi sulla guancia
(tanto eravate bella!)
e fui percosso dal ventaglio di madreperla.
— Ricordate anche troppo.
Or quella veste e quel ventaglio miniato
quando per economia
venni ad abitar qui, li lasciai nella mia
dimora, alla Ca’ d’oro,
chiusi dentro un armadio intarsiato,
accanto a’ bei gioielli
lasciatemi in eredità dai Loredano…
Poco fa, prima
che voi foste venuto,
colpita dallo strano
rumore della via,
schiudo la gelosia,
mi affaccio… e vedo
una maschera a braccetto
d’un abatino buffo e svenevole,
vestita con la bella mia veste pompadour!
— Marchesa, l’avventura
non è molto piacevole;
ma se vi dicessi che quell’abatino
portava la mia bella parrucca incipriata?
— Davvero? — Certo. La riconobbi
quando mi urtò, passandomi vicino
con la sua goffa dama imbellettata…
Oggi le maschere
vanno a spasso:
mi dicono che sia giovedì grasso.
I vivi si divertono, e i morti si dan pace.
— Abate mio… — Marchesa?
— Non m’offrite una presa
del vostro buon tabacco d’un tempo? — Mi dispiace,
ma ho dato via
la tabacchiera. Faccio economia…
Tito Marrone fu mio professore di Francese alla scuola media Duca degli Abruzzi negli anni 50. Veniva in classe sempre con un cappotto e un cappello marroni che non si toglieva mai. Non ci guardo’ mai in faccia e non ci insegno’ mai niente. Crepuscolare?…era gia’ morto! e per colpa sua non ho mai imparato il Francese.
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Ciao Roberto, grazie per averci raccontato la tua esperienza.
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