Recensione di Gian Luca Guillaume
Dalla quarta di copertina apprendiamo che, per scrivere questa opera prima, vi è stata una gestazione lunga trent’anni, ove il poeta ha addensato e composto il suo mosaico privato con vetri colorati e sghembi.
È una commistione di stili diversi: primo fra tutti, per presenza massiccia sulla pagina, quello prosastico bukowskiano, con tutti i riferimenti del caso, a cominciare dal tragicomico rapporto uomo-donna, alle fatiche e alle sofferenze quotidiane cariche di domande senza risposte, alle debolezze umane condite dai vizi, a quel filosofeggiare spicciolo ed elementare presente in molti poeti che vivono anziché meditare. Poi si passa all’aforisma o epigramma faceto, ove il poeta dà il meglio di sé date le sue innate doti umoristiche: alcune frasi sono davvero divertenti e argute, altre piuttosto incomprensibili, piccoli bon bon da offrire con galanteria a donne compiacenti di tali fraseggi così eccessivamente dolciastri. Infine, nascosto in angoli angusti e ombrosi, lo stile alto dei nostri poeti novecenteschi, con la presenza di strutture metriche imperfette che fanno a pugni con la maggior parte dei componimenti nonché con la natura estemporanea dell’autore.
Detto questo, mi vien più facile descrivere e giudicare questa raccolta procedendo per esclusioni, per sottrazioni, cioè indicando tutti quegli elementi presenti nella maggior parte delle raccolte, odierne e d’antan, e quelle consuetudini del poeta che qui non sono di casa.
Registro, con piacevole stupore, la totale assenza della pioggia (o quasi), del mal tempo, del cielo nuvoloso e nero, di quel tempo uggioso così usitato in poesia sia come pennellata impressionistica sia come rappresentazione di uno stato emotivo. La sua, invece, è una silloge “solare”, esuberante, con quello sguardo sempre rivolto verso l’alto, verso il cielo terso, le nuvole bianche e quel sole così radioso ed estroverso che ti vien voglia di sorridere o di correre a perdifiato. È un libro “ottimista”, giovanile e allegro, in controtendenza rispetto alla consueta e proverbiale malinconia del poeta. Anche la morte, così cupa e dolente, viene pronunciata solamente in riferimento all’ineluttabile condizione dell’uomo, un fatto conosciuto e inevitabile, quindi senza angoscia né pessimismo. La malattia, fisica o morale, che ha riempito pagine e pagine, interi tomi, soprattutto negli ultimi due secoli, è un altro ingrediente estraneo alla raccolta, sia nelle sue sfumature sia negli interstizi di qualche figura retorica di qualche verso oscuro; niente. Si sente che il poeta sta bene: è pieno di energie, felice della vita oppure disinteressato a quegli aspetti legati alla decadenza. Come pure la totale mancanza di figure senili come i vecchi, le nonnine, le beghine ecc.; manco l’ombra sulla carta. Come dicevo prima, l’autore preferisce strizzare l’occhio all’ironia anziché ripiegarsi su se stesso, preferisce la battuta arguta allo sfogo emotivo oppure essere sarcastico invece che patetico.
Un’altra esclusione evidente è quella della famiglia, dei ricordi nostalgici dell’infanzia, del poeta da cucciolo. Le sue rimembranze riguardano per lo più la maggiore età e sono tutte puntate su di lui: è lui il suo centro, lui è il suo mondo (forse questa non è un’anomalia…). I pochi viaggi trattati descrivono azioni e pensieri del poeta, ma appena due parole circa l’ambiente circostante. Il suo occhio è insensibile alla Natura, alla geografia fisica; non gliene importa un granché. C’è il mare, la città, qualche località ben precisa ma è tutto qui: il poeta ne parla scrivendone solo il sostantivo, giusto qualche similitudine; potrebbe benissimo trovarsi sulla Luna senza battere ciglio. Non gli interessano queste cose; legittimo. In compenso leggiamo e viviamo la routine contemporanea fatta di piatti da lavare, piante da annaffiare, tasse da pagare, lavori da fare (controvoglia), sigarette e cocktail da consumare, donne da amare e guai da combinare. Il poeta si fa cantore satirico di quella vita che obbliga e non concede, dell’amore che lascia traccia ma finisce e dell’eterno giovinetto o fanciullino pascoliano che c’è in ognuno di noi. Frammenti di un giovane quarantenne sempre pronto a raccontarsi e a raccontare, senza rimpianti o ripensamenti, quella vita che è come una giostra e ogni giro un aneddoto.