Articolo di Salvatore Amato
Era il 1944 quando Enrico Pea, mettendo insieme i giusti pezzi, ci regalò uno dei romanzi più strepitosi del nostro ‘900 letterario, un’opera di uno spessore tale da incantare letterati come Ezra Pound che ne disse: «È arrivato il momento di annunciare che l’Italia ha uno scrittore, ed è parecchio tempo che non affermo che alcun paese ne abbia uno!».
Il romanzo di Moscardino di Pea è la raccolta di quattro scritti biografici dell’autore già pubblicati singolarmente: Moscardino, Il volto del Santo, Magoometto, Il servitore del Diavolo. Nell’opera lo scrittore evoca i ricordi come nell’introspezione di un sogno, questi si materializzano come brina sulle pagine, così certi passaggi rapiscono e si sente l’impulso di leggerli più volte, si avverte l’incantatore di serpenti che agisce nella prosa, ipnotizza il lettore; gli occhi a vortici rossi e si vorrebbe imparare a memoria ogni parola, custodirla per sempre, farla propria nel ricordo, per quando se ne avverte il bisogno di rifugiarcisi.

Potrei continuare con valanghe di lodi a questa meraviglia letteraria partorita dalla penna del versiliese Pea, e forse dovrei farlo, perché non credo che abbiate compreso l’importanza di leggere questo capolavoro italiano. Questo vale per chiunque ami la letteratura ma non l’ha ancora letto e anche per molti scrittori, che oggi sono tantissimi… forse più dei lettori, e che come già diceva Neera nel 1912 (un editore a un autore nella novella Viaggio di istruzione): «Ah! caro signore, gli scrittori non leggono che se stessi. È il magro compenso che loro resta».
Passaggio che, purtroppo, potrei trovare più attuale che mai. Comunque, leggendosi da soli non si impara nulla, ma ci si avvinghia alle proprie convinzioni e debolezze, mentre leggendo Il romanzo di Moscardino, c’è quella scrittura creativa, pregna dell’Imagismo e Vorticismo Letterario, dove tutto sa di sogno, ogni vocabolo, ogni segno d’interpunzione potrebbe aprire un varco per un’altra dimensione, la dimensione dei ricordi che sanno accarezzare, anche quando sono tristi, miserabili, truci, cattivi, avari; una scrittura che incanta sempre tra gli accenti e le sfumature delle reminiscenze.
Intanto, mi accorgo, tristemente, che quando nomino questo romanzo, molti non sanno di che cosa sto parlando, sono caduti nel dimenticatoio sia Pea che il suo capolavoro. Eppure, Italo Svevo ne disse: «[…] certe sue pagine sono di una forza e di un’evidenza che fanno invidia» che poi, anche Svevo era apprezzato da grandi letterati dell’epoca, mentre i lettori l’hanno scoperto solo dopo che è morto, del resto, non sarebbe l’unico e rischierei di fare un articolo lunghissimo solo di nomi, perciò torniamo a Il romanzo di Moscardino.
Oltre Ezra Pound e Svevo, nel tempo, ne spesero in tanti bellissime parole tra cui: Ungaretti, Minore e Montale. Calvino volle che Einaudi lo ripubblicasse e negli anni Settanta uscì una versione troncata, privata della parte Magoometto.
Però Magoometto, la terza parte, è molto visionaria e legata al nonno, proprio come le prime due “Moscardino e Il volto del Santo”. La scrittura in queste tre parti mantiene un registro che oscilla al prosimetro, e si fonde bene insieme, mentre ne Il servitore del Diavolo, l’autore diventa più narratore che poeta e, con un velo mistico, ci racconta della sua maturità in Egitto, cambia penna, come cambia età del personaggio e scenario, perciò non so immaginarmi la versione senza Magoometto e forse, mi sarebbe piaciuto sì, ma non mi avrebbe stregato come nella sua totalità.
Per fortuna mia, di tutti i lettori e dei posteri, dal 2008 Il romanzo di Moscardino di Enrico Pea è ancora vivo, e integro in tutte le sue quattro parti, grazie a Elliot.