Ustica di Salvatore Giordano (Nulla Die)

Recensione di Vincenzo Patierno

“Agli ottantuno caduti in volo e a chi, colpito negli affetti o ferito nell’intelligenza, ne tiene in vita il ricordo e la brama di giustizia per una delle stragi più cupe della storia italiana, associata all’isola di Ustica”, anche se “l’incidente”, in realtà, avvenne nel Tirreno, a grande distanza dall’isola.


Quando l’aereo Itavia venne abbattuto, si trattava del volo ITGI 870, si è assistito a deplorevoli depistaggi delle indagini, a inchieste parlamentari,  a oscure morti di testimoni, a muri di gomma, al cannoneggiamento ai resti del relitto per farli affondare, alle bugie dei militari e del governo, a segreti di stato, alla leggenda sul mancato abbattimento dell’aereo su cui sarebbe stato Gheddafi,  al mistero sul Mig libico ritrovato sulla Sila e al miliardario ripescaggio dei resti del relitto… Perché fu ripescato se fu affondato?

Mentre scrivo questa recensione al tiggì scorrono i caroselli dei politici e degli amministratori in commemorazione della strage di Via D’Amelio, del 19 luglio 1992, ventinove anni di una musica arrangiata eseguita da un’orchestra stonata, come quella per la vicenda che si è letta e per altre, troppe.

“Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta” ma quando si é destata, ma quando si é assistito al suo “risorgimento?”

In Ustica di Salvatore Giordano, s’intrecciano le vicende di vari protagonisti, ritrovatosi a soggiornare sotto lo stesso tetto, alla pensione “alla Bastiana”, luogo dove ogni cosa occupa lo stesso posto nel tempo; tra le mura della pensione si respira un’aria del tutto simile all’ambiente domestico di una qualunque famiglia, ma domina anche un clima di conflitto perenne, che si manifesta dinanzi a ogni questione.
Chi soggiorna alla pensione ha i suoi scheletri nell’armadio, ma certi non vedono la trave nei loro occhi, ostinandosi a cercare la pagliuzza in quelli degli altri.

Dopo tantissimi anni, ormai anziano, uno dei protagonisti, il giornalista Marcello Gurretta che seguì l’inchiesta, deluso perché non più libero di svolgere il suo lavoro, sbarca su Ustica «soffio di miele e groppo di lacrime; profumo di sale e sentore di sconfitta; in grembo a te vengo a rifugiarmi dall’ombra furiosa della tristezza. Il tuo nome legato per sempre a una strage.»

Va a soggiornare nella pensione “Alla Bastiana”, Madama Elena, la locandiera, è una vecchia fiamma che ancora brucia. Lei ha la consuetudine di studiare i clienti spiandoli da uno sgabuzzino prima dell’accoglienza.

«Non solo i miei orizzonti fisici sono delimitati dal tetto della pensione, ma pur gli orizzonti mentali stessi, come la cerchia delle relazioni umane, si riducono all’universo di cui le miserie volte del medesimo stringono nettamente ai confini.»

Dopo qualche tempo giunge Beija, per prendere servizio,  che accende nel giornalista un sentimento d’affetto e protezione paterno.

Beija, con occhi da emigrante, con occhi “neutri”, vede meglio i difetti e i pregi del nostro paese, come comprende quelli degli ospiti della pensione.

La scrittura di Giordano è elegante, raffinata, cattura e ammalia il lettore, sa dirigere senza esitazioni e non di rado è capace di voli pindarici che portano a sottolineare passaggi degni di essere riletti e ricordati. L’autore è dotato di una prosa che si fa prodiga della fascinazione di cui tanto ci ha parlato l’antropologo Ernesto De Martino, uno stile che sa prendere le distanze da una letteratura contemporanea italiana, troppo spesso standardizzata a un format che le va stretto, piatta e fatta con lo stampino in una catena di montaggio per lettori assuefatti dai social e dall’apologia del nulla, tanto che talvolta si fa fatica a trovare una differenza stilistica tra un autore e un altro.                                                                                                                

Concludo questa recensione con una mia poesia, scritta tempo fa, che questo romanzo ha fatto tuonare nella mia memoria. 

 Italia 

Ostro e tramontana
a quel mezzo dì conversero, sloggiando
venti allogeni che imperversano;
il gambale s’incollò
e sovrana terra fosti Italia,
che nell’attraversar l’età di mezzo
delle vestigia di Roma
lascito non avesti…
Dalle canute guglie,
alle marine, agli sparsi ciottoli,
l’alloro delle legioni,
della città eterna,
continuò ad essere
tramandato canto popolare
e l’italico capo mai più cinse.
In ossessive idi di marzo
tuttora giaci mio gambale.
Del tuo risorgimento
mai si è stati spettatori.
Da amari rovi, in ogni tempo,
spenti come lucignoli
martiri avvolti nel tricolore, rei
d’aver bramato di strapparti
dal ristagnante vincolo
di salassata bagascia.
Nel febbraio del novantadue
spirò vento di sovvertimento, con l’assenza
del ruggir di tonanti cannoni,
che l’animo animò,
ma il rimpiazzo di nocchieri
da naufragio pur si rivelò.
Sei caravella arrenata
al punto mediano del Mediterraneo.
Oh Patria, hai ninnato il mio pianto
e il mio corso, nel cuor mio
leggiadra ninfa sei, ma viverti
è come valicar lo Stelvio passo
avendo suole traforate.

Vincenzo Patierno

Nato a Napoli, in quel del 66, iniziai a scrivere nell’adolescenza sketch che, nei campi scout, facevo interpretare e che interpretavo, insieme a pensieri e poesie, che però iniziai a comporre dalla morte di mia nonna. La scrittura, che ho ripreso solo da qualche anno, è il tramite che mi fa sentire libero e con cui mi esprimo meglio. Scrivo anche dei racconti brevi, alcuni dei quali, come le poesie, sono inserite in antologie pubblicate. Nel 2014, con Schena Editore, ho pubblicato la mia silloge poetica “Abbraccio alla Vita” e nel 2022, il mio primo romanzo dal titolo “1977-Alla valle dei mulini di Gragnano” per Ivvi Editore.

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