Perielio di Virginia Benenati (Edda)

Recensione di Gian Luca Guillaume.

Tra le innumerevoli raccolte di poesie d’amore che si stampano ogni anno, ecco spuntar fuori un libricino pubblicato dalla neo-casa editrice Edda Edizioni, dal greco titolo Perielio. Si vuole segnalare e recensire il suddetto, in questa sede, per via della strada intrapresa da questa giovane poetessa, Virginia Benenatiche non ha scelto il percorso battuto da tutti, conforme ai piaceri e alle mode odierne, ma quello più impervio, meno seguito, quasi sconosciuto, cioè una poesia letteraria, filosofica e accademica.

Partiamo dalla scelta di pubblicare una raccolta striminzita (secondo i canoni attuali), composta di poche poesie (sono in tutto ventitré componimenti), alla maniera delle sillogi pubblicate dagli albori fino a metà del secolo breve dai “giganti” della letteratura italiana. Una scelta, questa, apprezzabile sia dal punto di vista della selezione di ciascheduna poesia sia dal punto di vista del coraggio di andare controcorrente, rispettando la tradizione letteraria, non quella di mercato.
Perielio racconta l’amore attraverso l’immota azione, lo stilnovismo struggimento nel silenzioso loco della propria mente, tutto taciuto e ragionato con l’anima e il core. Si ama da lontano, da vicino, dichiarando, omettendo, tenendo nascosto l’indomabile sentimento con reticenza, e attraverso il linguaggio degli occhi comunicando il segreto inconfessabile.
Il seno, nido d’amore e di rifugio ove l’io poetico si culla e si nasconde (“attingevo la vita dai tuoi seni di latte”), i baci languidi e desiderati (“la felicità si posava sulla tua bocca,/ a un domani di baci e promesse”) e le mani cercatrici di voluttà e di verità assolute (“le tue mani sono treni che viaggiano di notte/solcano il buio”) sono presenze fisiche intra un sommovimento di emozioni e ripensamenti. Tutto questo viene descritto nel più puro coinvolgimento emotivo, paragonato spesso e volentieri all’innocenza e alla spensieratezza del fanciullo, del bambino, spogliandosi della condizione più erotica e cinica vissuta in età adulta. Qua e là, sporadicamente, si possono trovare dei passaggi sensuali ed espliciti (un poco velati dal giogo poetico), giusto per dare un po’ di sugo a una raccolta che altrimenti sarebbe troppo idilliaca, troppo lontana dalla realtà conosciuta da tutti.
Le poesie liriche che sfilano sulla pagina si fanno forti di un lessico aulico e accademico, di locuzioni “alte” e accostamenti arditi. Questo crea, a volte degli attriti (“lo sconquasso agitato e mutolo della mia voce afona”) a volte delle note piacevolissime (“i prischi inni della mia infanzia perduta”).
La poetessa ci accompagna tra i meandri della sua psiche attraverso un attento e rigoroso labor limae della parola, della sintassi, e l’utilizzo della similitudine, figura retorica onnipresente e distintiva dell’autrice. Personaggi mitologici, biblici e storici sono un pretesto per delle considerazioni sul rapporto amoroso, sul rapporto di coppia, ove è la parola, il dialogo la vera assenza: il desiderio incolmabile di una dichiarazione, di una parola dolce, di una promessa d’amore, che va oltre il contatto fisico, pur presente e sottointeso, spingono la Benenati verso una poesia concentrica, un turbine di ragionamenti, speculazioni, ammissioni e preferenze. È un’artista della parola non delle sensazioni, dell’artifizio non della spontaneità, non ascrivibile ad alcuna corrente letteraria italiana odierna (forse quella ermetica e/o intimista), lontana anni luce dalla moda del verso totalmente prosastico imperante da almeno dieci anni a questa parte.
Virginia Benenati viaggia da sola, con un bagaglio pieno di classici antichi polverosi ma preziosi, e dal finestrino del suo mezzo espressivo fotografa il suo pensiero, analizza il suo sentimento e canta la sua malinconia e la sua joie de vivre l’amour.

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